Un affare di famiglia
Un affare di famiglia (Tit. originale: Manbiki kazoku. Tit. internazionale: (Shoplifters)
Regia: Hirokazu Kore’eda
Con: Lily Franky, Ando Sakura, Kiki Kilin, Matsuoka Mayu, Jyo Kairi, Sasaki Miyu.
Giappone, 2018
Durata: 121’
Tokio, oggi. Osamu, lavoratore edile a cottimo, e Nabuko, dipendente di una lavanderia, hanno messo su una casa famiglia sui generis: la vecchia pensionata, la giovane Aki video pornostar e Shota, ragazzino abbandonato dai genitori. Per arrotondare le scarse entrate, Osamu ha addestrato Shota a compiere furtarelli. Non lo ha fatto per cattiveria, ma solo perché “era l’unica cosa che poteva insegnargli”. Anche il “rapimento” della piccola Yuri, piena di lividi, è per Osamu e famiglia solo un gesto d’amore. Una serie di imprevisti fa crollare la “capanna” dove i sei cuori avevano trovato pace e affetto: Osamu si infortuna, il caso Yuri diventa un “Chi l’ha visto” alla giapponese, Nabuko perde il posto di lavoro. Quando la nonna muore, per continuare a riscuotere la sua pensione, Nabuko suggerisce di seppellirla nel giardinetto di casa e di non denunciarne la dipartita. Tutto crolla quando Shota si fa cogliere con le mani nel sacco. La legge non ammette nonni, padri, madri e fratelli fuori dai vincoli di sangue: Nabuko si autoaccusa e finisce in carcere, Aki va via, la piccola Yuri ritorna nel ring dei suoi genitori, Shota viene affidato ai servizi sociali, Osamu resta solo.
“Ho iniziato a pensare a questo film – confessa il regista – quando ho sentito alcune storie di famiglie che, per sopravvivere alla miseria, hanno continuato a percepire la pensione di vecchiaia dei loro cari defunti da tempo. In Giappone, crimini come questo, le frodi ai danni delle assicurazioni e lo spingere i figli a rubare sono puniti gravemente”. Se fosse vissuto in Italia, Kore’eda Hirokazu avrebbe avuto su questo argomento un bel po’ di storie da raccontare e, probabilmente, non ci sarebbe stato motivo di cambiare l’internazionale “Shoplifters” (“Taccheggiatori”) in “Un affare di famiglia”. Il titolo della versione italiana, però, ha il pregio di indirizzare verso la giusta lettura ed è avallato da un’ulteriore dichiarazione del regista giapponese che ha commentato: “Certo è legittimo denunciare gli autori di tali atti, ma mi chiedo il perché di tanta rabbia nei confronti di reati insignificanti a confronto di altri molto più gravi che rimangono impuniti”. Non ci racconta, infatti, furti e truffe di grandi taccheggiatori, ma piccoli affari della “famiglia” Osamu. Strani affari e strana famiglia, che suscitano domande e invitano a chiarire almeno due concetti: che cosa si intende per “famiglia” e quando un “prelievo” diventa “furto”?
In questo film, alla famiglia ufficialmente riconosciuta che pur non avendo problemi di sostentamento va avanti tra dissidi e frustrazioni, fa riscontro la famiglia liberamente scelta dove sei persone vivono in uno spazio ristretto, fanno affidamento sulla magra pensione di una vecchia, compiono lavori precari, ma si vogliono bene, dividono i pasti, si curano reciprocamente e si accarezzano, godono della visione di fuochi d’artificio e di rare gite al mare. I furti? Possono rientrare in questa categoria anche le bugie della nonna all’assistente sociale, la sottrazione di leccornie e di generi alimentari nei supermercati, la decisione di non riportare nelle grinfie dei suoi genitori naturali una bambina di cinque anni piena di lividi? Ancora una volta – dopo “Father and Son” (2013), “Little Sister” (2015) e “Ritratto di famiglia con tempesta” (2016) – Kore’eda esplora il nucleo familiare, pone in conflitto la legge sociale con la legge morale, scava nella nostra coscienza e sembra chiederci: “E voi cosa avreste fatto?”
Fedele alla scuola dei maestri giapponesi – di Yaujiro Ozu, che esplorava i rapporti umani piazzando la cinepresa in spazi ristretti (“Viaggio a Tokio”) e di Akira Kurosawa, che dava agli interrogativi non una ma più risposte spesso in antitesi tra di loro (“Rashomon”) – Kore’eda ha un’idea di cinema che non può lasciare indifferenti. Sfruttando la fotografia di Ryuto Kondo e la scenografia di Keiko Mitsumatsu, che hanno di certo avuto il loro peso nel riconoscimento della “Palma d’oro” a Cannes 2018, alterna sequenze di freddo realismo (la tristezza di una bambina, gli interrogatori degli inquirenti, il dialogo in carcere tra Nabuko e Osamu, l’esibizione porno di Aki) a quadri in movimento. I suoi inviti agli spettatori sono di duplice natura: da una parte, incoraggia a contemplare idilli e piccole gioie di povera gente soffermandosi nei particolari (la condivisione dei pasti, le carezze, la felicità di giocare insieme, di amarsi, di tuffasi nel mare, ecc.); dall’altra, evita di mostrare sofferenze facendo ricorso a “pennellate d’autore”. E così ognuno di noi è chiamato a ricostruire nella sua fantasia l’incidente di Osamu, il salto nel vuoto di Shota, le botte subite da Yuri, la morte e la sepoltura della nonna. Non è una scelta casuale, né pudore di regista; credo, piuttosto, che Kore’eda voglia intenzionalmente coinvolgere nella vicenda chi è andato al cinema per ficcare il naso in affari d’altri. Il suo non è un cinema didascalico, ma inquisitorio. “Questo è quello che io vi mostro – sembra dirci – ma lascio a voi il compito di completate a vostro piacimento la mia narrazione”. Per convenirne si faccia attenzione alla splendida minisequenza finale. La piccola Yuri è ritornata tra le gelide pareti di casa, ha subito un ennesimo rimprovero dalla mamma, si è ritirata nel cortiletto ed è stanca di giocare in solitudine. Sale, allora, su una panca e guarda smarrita oltre la staccionata che le impedisce di uscire per strada. Cosa vede? E, soprattutto, cosa pensa? Kore’eda la fa tacere. E allora proviamo noi a leggere nello sguardo di una bambina di cinque anni i suoi interrogativi. Sta dicendo: Dov’è nonna Hatsue? Dove sono papà Osamu e mamma Nabuko? Dove sono mia sorella Aki e mio fratello Shota? Rubare arance e merendine è più grave di rubare l’infanzia?
Italo Spada
(italospada@alice.it)