I tanti “se” di NOMADLAND
Se: «congiunzione con valore ipotetico».
Per esempio: se, nel 2014, la giornalista americana Jessica Bruder non avesse svolto un’inchiesta sulla vita nomade di alcune persone senza lavoro fisso che si spostavano da un posto all’altro a bordo di veicoli e vivevano svolgendo lavori occasionali; se i risultati della sua ricerca non fossero stati pubblicati nel 2017 su Harper’s Magazine con il titolo «La fine della pensione; quando non puoi permetterti di smettere di lavorare»; se, invogliata da quell’articolo, la giornalista Jessica Bruder non avesse avuto l’idea di percorrere a sua volta circa 24.000 chilometri a bordo di un furgoncino, incontrare nomadi di diversa età, partecipare ai loro raduni, indagare sui motivi della loro scelta di vita, scoprire che molti stavano pagando le conseguenze della recessione del 2008 e far confluire tutto nel romanzo verità «Nomadland: un racconto d’inchiesta»; se Chloé Zhao, per trarre un film da quel romanzo, non avesse deciso di allestire anche lei un van, cercare i personaggi del romanzo, ascoltare le loro storie e farle diventare sceneggiatura; se Nomadland, grazie anche al fatto che la pandemia ha tenuto fuori il parere del pubblico che spesso condiziona la scelta dei giurati, non avesse vinto il Leone d’oro a Venezia 2020 e tre Oscar (miglior film, migliore regia, migliore attrice protagonista) nel 2021, se… se… se… Insomma, se non ci fossero stati tutti questi “se”, non staremmo qui a riflettere sul “cos’è” e sul “cosa dice” questa nuova fatica della regista cinese. Ma i “se” ci sono e ci sono anche gli interrogativi che il film pone.
Che cos’è, allora, Nomadland?
Un film, ovviamente, ma… che genere di film? Documentario, inchiesta, avventura, poesia…
Fare luce su questa premessa aiuta a non confondere capre e cavoli.
L’operazione non è semplice, perché le risposte dipendono dai gusti e dalle aspettative degli spettatori che, come ben si sa, quasi mai diventano collettivi battimani di approvazione o fischi di condanna. Colpa del rimanere ancora bloccati da schemi e catalogazioni; si stenta a capire che da tempo il cinema ha rotto gli argini dei generi filmici. Basta sentire certe domande: “Si ride o si piange? Ci si distende o ci si annoia? Vale la pena o è tempo sprecato?” Difficilmente viene presa in considerazione l’ipotesi che un film, come avviene per altre opere, può contemporaneamente essere racconto-documento-poesia-saggio.
Prendiamo la storia di Fern (nella realtà la ultrasessantenne Linda May e sullo schermo una bravissima Frances McDormand). Facciamo la sua conoscenza quando decide di fare una vita da nomade non per il gusto dell’avventura, ma perché la chiusura dell’azienda dove lavorava e la morte del marito Bo l’hanno improvvisamente scaraventata in mezzo alla strada. Con coraggio e fermezza, decide di superare la batosta estirpando le radici, trasformando in monocamera ambulante il suo caravan e intraprendendo un viaggio senza meta. Senzacasa, ma non senzatetto, come avrà modo di precisare, farà più lavori, vedrà altri posti, percorrerà desolate campagne, rimarrà incantata dalla bellezza delle montagne e, soprattutto, conoscerà altra gente.
Sul suo caravan c’è posto anche per noi; da distratti spettatori, a mano a mano che le tappe si susseguono, diventiamo partecipi dei suoi lavori saltuari, delle sue difficoltà, dei suoi incontri nelle libere aree di parcheggio e nei raduni. È così che la cinepresa smette di essere occhio che registra (alla Dziga Vertov, per intenderci) e diventa strumento di pedinamento neorealista (alla Zavattini); da film on the road con una sola protagonista, Nomadland prende forma di film collettivo dove si narrano storie di sopravvivenze, di delusioni e di emarginazioni e si sottolineano l’importanza delle amicizie e il valore del reciproco aiuto. Con un finale aperto che non può non richiamare “Tempi moderni” (1936). Un flash e l’immediato collegamento alle vicissitudini di un altro personaggio che, durante la depressione del ’29 che attanagliava l’America, andava in tilt, diventava nomade e sbarcava il lunario facendo diversi lavoretti. Si chiamava Charlot e anche lui completava la sua odissea avviandosi su una strada. Era a piedi ma aveva una ragazza al suo fianco. Fern ha il suo furgone ma è sola. Dove andrà? Altre tappe e altri incontri, oppure quello è l’ultimo viaggio sulla strada già percorsa dal suo Bo?
Chloé Zhao non ce lo dice. E fa bene, perché in tal modo ci permette di entrare nella vicenda e di completarla a nostro piacimento. Magari prendendo in prestito le stesse parole di Charlot che invita la monella a sorridere nonostante tutto perché “un giorno senza sorriso è un giorno perso”.
Altri se. Questa volta come “congiunzione con valore dubitativo”.
Per esempio: se pensate che andare al cinema equivale a ridere e a distendersi; se, dopo aver visto un film, non vi dispiace riflettere…
Nel primo caso, rimanete a casa. Nel secondo, non ve lo perdete.
Nomadland
Regia: Chloé Zhao
Con: F. McDormand, D. Strathaim, G. DeForest, L. May, C. Swankie, B. Wells
USA, 2020
Durata, 107’
Italo Spada
(italospada@alice.it)